ARTE E CULTURA: “Pino Genovese”

Pino Genovese: “L’arte? Ha bisogno di spazio”

Lo spazio e il tempo. Il tempo è quello che si impiega per riflettere, guardare e guardarsi dentro. Un tempo che dura anni o pochi secondi. Poi lo spazio; che per Pino Genovese, scultore, scenografo, grafico e molto altro, si dilata e supera le pareti dello studio. L’arte in spiaggia, tra le dune, confusa nel vento. Un’arte che, in silenzio, parla, racconta, risponde.

Pino Genovese, classe 1953, è quel che si dice – banalmente – un “figlio d’arte”, poiché il padre, Rocco, era un apprezzato scultore. Scomparso nel 1981 a soli 51 anni ha avuto comunque il tempo di trasmettere a Pino quella scintilla, quella passione, quella voglia di osservare e di non fermarsi al primo sguardo, alla superficie, alle risposte troppo facili, al colore statico, alla forma immodificabile. Perché l’arte, quella vera, non si può incasellare, archiviare in una sola definizione; niente “istruzioni per l’uso” insomma. Ognuno ha il suo linguaggio, le sue idee e – soprattutto – le sue domande.

Domanda: perché “banalmente”? Perché anche se, come si dice, il sangue non è acqua; anche se papà Rocco, prima di morire (accadde quando Pino aveva solo 28 anni), ha avuto tutto il tempo di “passare” al figlio nozioni e passioni (l’abbiamo già detto, pardon), il figlio ha scelto diversi linguaggi, diversi percorsi. Si è fatto altre domande senza per forza attendersi risposte immediate. Perché le risposte possono arrivare subito o farsi attendere anni, secoli. Qui sta il bello: noi siamo curiosi, scaviamo, scrutiamo, cerchiamo di guardare oltre ma non amiamo, mai, che qualcuno ci presenti una soluzione, una spiegazione troppo logica, dietro l’angolo.

Pino inizia a cimentarsi con il design: si diploma all’ISIA di Roma, allora diretto dallo scultore Calò. Lavorerà come grafico pubblicitario per passare poi al teatro: il palcoscenico è quello della compagnia “La zattera di Babele”; qui collabora alla realizzazione delle scenografie “firmate” da Paolini, Fabro, Nitsch…

Ci risiamo: le domande, la ricerca, l’esplorazione del mondo; non solo il pianeta Terra, ma il nostro mondo interiore, quello che si disvela poco a poco e che solo noi possiamo e dobbiamo imparare a “leggere”. Per un artista la strada migliore è quella di aprirsi a tutti i linguaggi: pittura, teatro, scultura, fotografia, design… È quello che ha fatto – e che fa – Pino Genovese.

Oggi Genovese vive a Lavinio e le sue “muse” sono il mare, la spiaggia, il vento. Insomma la Natura, quella con la N maiuscola. Natura che si può compenetrare, solleticare, con sculture che nascono e “muoiono” lungo le membra della natura stessa; per esempio il legno, i tronchi. Ed ecco, sulla spiaggia, le “piroghe”, il Gigante, le Zattere, le Capanne sudatorie… Installazioni maestose lungo una “galleria” che è più grande del Moma, più grande del Louvre; una galleria che non finisce mai, che sta sulla terra e che può finire in acqua. Opere che oggi ci sono e domani, forse, il mare le inghiottirà.

Se l’artista si fa molte domande, il giornalista, beato lui, si procura le risposte in pochi minuti. Facendo domande, certo; ecco la prima: Pino, come è nata questa sua passione? Quando è scoccata la scintilla?

“Non credo ci sia un giorno, un momento preciso nel quale è scattata la molla. Sicuramente mio padre ha lasciato il segno: ho iniziato rielaborando le sue sculture ma, in seguito, ho scelto altre strade. Il disegno, comunque, è stata la mia prima (tuttora vivissima) passione”.

Artisti si nasce?

“Bella domanda. Ma non posso rispondere, nessuno può rispondere. Certo l’inclinazione c’è; avere “il dono” (del disegno, della musica ecc.). Ma se il dono non l’avessi avuto, chissà? Magari sarei ugualmente qui a disegnare, scolpire…”.

L’arte ha il suo pubblico, instaura un rapporto con l’osservatore. Ma prima di tutto dialoga con l’artista. Lei che rapporto ha con la sua arte?

“Lo dico con una parola semplice: bello. Un bel rapporto, senza dubbio. Al mio lavoro ci tengo, mi ci attacco; un lavoro in continua progressione: l’opera non finisce, non si conclude, non si “chiude”. Insomma non ha un inizio e una fine, un confine invalicabile, una geometria da rispettare. Si deve rivedere di continuo. Rifletto, riscrivo, rimodello, ricomincio… Poi le mie opere sono effimere per definizione: esposte al vento, alle mareggiate. Oggi ci sono e domani il mare le divora. Il mare o anche un passante che, avvicinandosi, decide di smuoverle o distruggerle. Anche per questo le sculture le fotografo; così l’arte rimane, continua a muoversi…”.

Come nasce il suo stile? Questo rapporto stretto con la natura, il mare, lo spazio aperto…?

“È una necessità fisica. Dentro lo studio si sta stretti, troppo stretti. Non solo: da bambino, da ragazzo passavo infinite estati in campagna dai miei nonni; campagna siciliana. La natura mi è entrata dentro, con i suoi silenzi e le sue grida. Natura maestosa, autoritaria, invincibile e docile, tanto misteriosa quanto “chiacchierona”. Da tutto questo nasce il mio linguaggio; un cammino lungo, lento, tuttora in divenire. Anche la grafica, e il teatro, hanno contribuito molto alla mia formazione; mi hanno aperto un mondo, il mondo. Così ho capito che la natura, e la materia che “lei” fornisce è la più adatta, la più sincera per scolpire, creare, raccontare”.

La fortuna ha un ruolo per affermarsi nell’arte? Lei l’ha incontrata?

“La fortuna può manifestarsi in diversi modi: incontrando una persona che ti sostiene, che crede in quel cha fai, per esempio. Oppure, perché no, si palesa sotto mentite spoglie: la morte di mio padre, certamente non una buona notizia, mi ha comunque aperto nuovi spazi, spinto a cercare la mia strada, le mie domande…”.

Che consiglio darebbe ad un giovane che volesse intraprendere questa strada?

“Lavorare sodo, guardarsi intorno, farsi conoscere. Poi viaggiare: i viaggi arricchiscono, aiutano a guardarsi dentro. Viaggiare e visitare musei, gallerie; camminare e “sfogliare” l’arte prodotta nei secoli dei secoli. Così facendo si arriva a capire un po’ come funzionano le cose; a passi lenti, però: io ancora non l’ho capito troppo. E qui sta il bello”.

 

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