PROTAGONISTI: ” Mario Morbidi “

“Farsi le ossa “

 

Imparare, impegnarsi, crederci. Solo facendo così, solo lavorando sodo si può vivere e lavorare dove vogliamo: vivere e lavorare dentro le nostre passioni, il nostro mondo. Èsuccesso a Mario Morbidi, classe 1953, chirurgo ortopedico. Cosa significa, oggi, essere medico? I traguardi, le aspettative, i sogni di una professione che cambia ogni giorno.

 

Farsi le ossa sui libri; poi nelle corsie degli ospedali e nelle sale di anatomia. Hanno cominciato tutti così, non si scappa. Non è “scappato” neppure il professor Mario Morbidi, ortopedico. Anche lui avrà tremato per l’esame di fisiologia; poi le notti in bianco perché “Quello di Chimica non concede sconti, ha cacciato senza complimenti anche i migliori…”.

La notte prima dell’esame; c’è chi dorme e chi, invece, annega nel caffè. Una tazzina dietro l’altra, una pagina, due, dieci, quindici; poi ancora indietro, quel capitolo che non mi entra in testa, il “prof” di istologia che domani…

Studiare in pigiama, perché per dormire c’è tempo: bisogna darsi da fare, farsi le ossa. Perché tra poco, smesso il pigiama, metterò il camice.

Farsi le ossa. Poi qualcuno le ossa se le rompe; ossa, muscoli, tendini… l’apparato locomotore; si dice così? Risposta affermativa. Il professor Morbidi le ossa se l’è fatte ed ora “aggiusta” quelle degli altri.

Non è così semplice, chiediamo venia. D’altronde noi facciamo i giornalisti, non indossiamo il camice. E la nostra categoria, spesso e volentieri, i “camici” li ha messi anche alla berlina. Talvolta a ragione, spessissimo a torto. Siamo stati noi a coniare il termine “malasanità” o – più brevemente – “malsanità”. Ma c’è medico e medico, giornalista e giornalista. C’è il ciarlatano che si nasconde dietro il “medichese” stretto e il pennivendolo. Poi ci sono tutti gli altri.

Per esempio ci siamo noi: io e il professor Mario Morbidi. Io che cerco – provo – a riempire due pagine di verità; la verità, la storia e le storie di un medico che non ha dimenticato Ippocrate e che ogni giorno, in sala operatoria, dispiega il suo talento.

Il curriculum? È lungo e variegato, punteggiato di docenze e primariati in numerosi atenei e altrettanti complessi ospedalieri di Roma e non solo. Ma non siamo qui per parlare di “carriere”: siamo qui, come sempre, per chiacchierare e farci raccontare da vicino come si fa. Come si fa e come si “vive”, oggi, una professione come quella del medico. E come, invece, la si sognava “ieri”.

Ortopedico ma anche tennista di buone speranze; dalla racchetta al bisturi: qualche rimpianto, professore?

“Nessun rimpianto. La racchetta, peraltro, non l’ho appesa al chiodo; ma il tennis resta un gioco, un gioco che mi ha dato anche tante soddisfazioni: fino a 40 anni ho fatto più o meno sul serio, qualche medaglia la tengo ancora in serbo nei cassetti… Nel frattempo mi son messo in gioco con il camice. Partite difficili? Qualche volta sì, ma la passione è grande. E non mi passa”.

Cosa vuol dire, oggi, fare il medico? Com’è cambiato il rapporto con i pazienti?

“Molto è cambiato dal… secolo scorso. Devo, dobbiamo dire così poiché in effetti io e tanti altro colleghi della mia generazione siamo uomini e donne del Novecento. Ci siamo formati lì, siamo cresciuti lì, nel cosiddetto “secolo breve”. In breve, poi, abbiamo preparato le valigie e ci siamo messi in viaggio verso il nuovo millennio. Ma la nostra storia inizia nel Novecento; un secolo ricchissimo di traguardi per la medicina, senza dubbio: le vaccinazioni di massa, gli antibiotici, i primi trapianti… Eppure noi si studiava sui libri. Pagine e pagine di sudore, fatica, paura. Paura dell’esame, paura di non ricordare una formula o di tralasciare un paragrafo. Vuoi approfondire? Vuoi fare una ricerca? Vai in biblioteca, vai all’Istituto di, al Dipartimento del… Sfoglia, leggi, studia, prendi appunti. Lavagna, gesso, inchiostro, punto e basta. Valeva per lo studente e per il medico “fatto”. Ecco cos’è cambiato: oggi ci si aggiorna con un “click”, si possono guardare i colleghi – compresi quelli d’oltreoceano – che impiantano una protesi. Loro in “sala” con il bisturi, io alla scrivania. A prendere appunti, come sempre”.

Già, il Novecento e la medicina. Se tra poco celebreremo il cinquantenario dello sbarco sulla Luna, non dobbiamo dimenticare che due anni prima di quel 1969 Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto cardiaco della storia (Città del Capo, dicembre 1967).

Il professor Morbidi non trapianta cuori, certo che no; anche in ortopedia, però, il verbo “trapiantare” ha il suo perché; trapiantare, impiantare, inserire, articolare… Passi da gigante, nel nuovo millennio. Solo venticinque anni fa un calciatore era costretto ad abbandonare la professione per una condrite. Oggi, invece, lo stadio resta aperto. Per il calciatore, il tennista, il pilota e tanti altri, sportivi o meno, under 30 o over 80.

Professore, la sua risposta è incompleta: il rapporto con i pazienti, ieri e oggi…

“È cambiato anche quello, certo. Il paziente vuol essere informato, vuole interloquire. Vuole – e deve – capire perché si sceglie un percorso terapeutico, perché optare per un intervento in luogo di un altro. Noi non parliamo più il “medichese” e tutto quel che diciamo e che prescriviamo deve essere trasparente. Un rapporto che però, spesso, è modulato dalla politica più becera e anche dall’informazione con la I minuscola; da qui nasce la cosiddetta medicina difensiva: il medico, come tutti, può sbagliare. Ed ecco il circolo vizioso: mille esami, mille analisi, mille riscontri per non finire ritratto in prima pagina come il “mostro”. Mi consenta poi una parola sulla cosiddetta malasanità: non è fatta dai medici, dalle diagnosi, dalle terapie adottate; la malasanità è quella della mancanza di letti, dei pronto soccorso al completo, delle ambulanze che si fanno aspettare… Se poi un medico sbaglia paga. Ma talvolta pagano anche gli incolpevoli e questo ci ha portati, tutti, a investire somme ingenti a beneficio delle compagnie assicurative”.

Lei ha da tempo abbandonato le trincee ospedaliere per dedicarsi esclusivamente alla professione privata. Nell’immaginario collettivo il “luminare” che ti opera in clinica, quello che per una visita si fa aspettare settimane, se non è un “Paperone” poco ci manca. Cosa c’è di vero?

“Di vero, oggi, quasi niente. Se scegli medicina per diventare Paperone sei fuori strada: nel pianeta salute è cambiato tutto, sia nell’ambito pubblico che in quello privato. Nel secondo, poi, ormai comandano le compagnie assicurative: loro, negli anni, hanno calmierato le tariffe. Le cliniche, e i camici, si sono adeguati. Medico, avvocato, notaio… I professionisti lavorano, chi bene e chi meno bene. Ma Paperone è lontano; è un fumetto, punto e basta”.

Lei ha tre figli; il terzo (la terza) forse sceglierà Medicina. Nel 2019 è ancora una buona idea? Anche per restare in Italia?

“Ai miei figli non ho mai imposto né consigliato nulla, chiarisco. In ogni caso la risposta è sì: i giovani oggi sono bravissimi, curiosi, sanno ancora “mettersi sotto”. Di medici avremo bisogno anche domani e dopodomani. La medicina cambia, cambierà. Verranno altre sfide e solo chi ha vent’anni potrà cavalcarle al meglio”.

L’intervista finisce qui; il messaggio è chiaro, chiarissimo: diamoci da fare, coltiviamo le nostre passioni. Passioni che, domani, potrebbero divenire il nostro lavoro. Per Mario Morbidi è andata così.

Domani toccherà ad altri; meglio cominciare subito.

Cominciare… a farsi le ossa.

 

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