PROTAGONISTI: Claudio Strinati

Claudio Strinati: l’approccio diagnostico all’arte

Ha fatto dell’arte la sua passione, professione e missione. Una carriera lunghissima e ricca di soddisfazioni, che lo ha portato ad essere soprintendente del Polo museale romano dal 1991 al 2009.

di Chiara Capoccetti

 

Come si è avvicinato all’arte?

«In famiglia. Sono nato e cresciuto in una famiglia dove si sono sempre svolte due attività: medicina e belle arti. Mio padre infatti era medico, il mio nonno paterno invece professore e critico d’arte. In famiglia quindi si è sempre parlato tanto di medicina ma anche di arte e da sempre. Crescendo, ho pensato così di operare in uno o nell’altro settore, maturando una forte passione parallela per entrambi. Alla fine scelsi la facoltà di lettere per studiare Arte e Archeologia perché mi sembrava semplicemente di essere più portato per questo percorso. Solo in apparenza sembrerebbero due mondi totalmente diversi, in realtà il legame è fortissimo e le affinità sono tantissime. L’arte e la medicina portano a sviluppare, ciascuna a loro modo, una capacità diagnostica. Nel caso del medico si tratta di analizzare scrupolosamente il paziente per comprendere cosa non va, in arte lo stesso atteggiamento si ha nell’analisi delle opere per capirne il significato, stile, autore, linguaggio visivo e come il paziente va curato, così, allo stesso tempo, le opere vanno restaurate e conservate. Il medico interviene chirurgicamente sul paziente, il restauratore fisicamente sull’opera per salvaguardarla e tutelarla. L’unica differenza è che il medico lo fa con persone viventi, l’arte con oggetti che però vivono di colori e supporti che invecchiano come persone. Sicuramente quindi vivere circondato da medici ha condizionato anche il mio approccio artistico».

 

Attingendo dai suoi ricordi, c’è un primo oggetto artistico o luogo visitato che l’ha stregata?

«Ho dei ricordi in effetti precisi di quando ho avuto il primo impatto con l’arte e con le opere che hanno così condizionato la mia infanzia. Da piccolo amavo le giostre, e ho un ricordo vividissimo di un episodio in particolare. Sono nato nel 1948, e quindi negli anni ‘50 ero bambino. La prima esperienza estetica che ho vissuto è stata quando i miei genitori mi portarono a giocare in un enorme piazzale vicino casa. Ai tempi abitavo nella zona della Basilica di San Giovanni a Roma. Qui erano state installate fisse delle giostre che per me erano il massimo divertimento e passatempo per le mie giornate. Accanto a queste  si vedeva un enorme gruppo scultoreo, tutt’ora presente, che ritrae San Francesco d’Assisi accompagnato da un gruppo di fedeli, che arrivando davanti alla Basilica alza le braccia come se avesse una visione del divino. È un opera degli anni ‘20 del ‘900 di un bronzista, Giuseppe Tonini, famoso ai tempi ma totalmente dimenticato, che ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità e che rientra nel gruppo di artisti che lavorarono per d’Annunzio al Vittoriale, e che ricevette poi l’incarico importassimo di realizzare questa scultura per Roma. San Francesco è come sul vertice di una montagna ed intorno a lui si accalcano i compagni. Quello che veramente mi aveva colpito da bambino è che su questa scala di pietra si potesse salire. Quindi, nella mia semplice visione infantile, il tutto mi sembrava un’estensione della giostra, un divertimento. Tutto questo per dire che un’opera d’arte è per me, prima di tutto, una presenza divertente ed è questo quello che mi aveva colpito di quella scultura. Una percezione di un concetto intuitivo del bello che scaturisce da un contesto divertente anche per un bambino. Non avevo idea che quella fosse arte, finché nel percorso intrapreso nella mia vita non l’ho capito».

 

Potendo incontrare un personaggio artistico storico o contemporaneo, chi sceglierebbe?

«Raffaello Sanzio, per tanti motivi! In primis perché fu il primo di cui ho sentito parlare, e poi perché leggendo di lui e studiandolo ho appreso che con la sua arte ha incarnato la bellezza suprema e la perfezione. Mi continuava però a stupire il fatto che, nonostante queste premesse, non mi piacesse affatto e non capivo perché. Ho sviluppato poi una sincera simpatia per lui, tanto da leggere di tutto e arrivare a scrivere dei libri su Raffaello. Certo mi continuo a chiedere ancora oggi se l’ho mai capito, o se ha senso quello che ho scritto. Il suo lavoro, complessivamente parlando, continua a piacermi poco, eppure c’è qualcosa che mi incuriosisce e stimola. Naturalmente l’ultima cosa che gli chiederei incontrandolo è della sua arte. Sarei invece molto interessato a sapere il più possibile su di lui come persona. E’ gentile o burbero? Vanitoso o umile? Colto o ignorante? Buono o cattivo? Infine c’è un ultimo elemento fondamentale che mi sento che ci lega: è di origine marchigiana, proprio come me! Chissà se tra conterranei ci si intende di più?»

 

Qual è il traguardo raggiunto di cui è più orgoglioso? Ne ha ancora uno da voler raggiungere?

«Difficile da dire. Quando ho intrapreso questo percorso avevo l’ambizione di diventare soprintendete per occuparmi delle opere che studiavo e posso dire di averla realizzata. Magari ad un altro poteva non interessare ma a me sì. Poi il traguardo oltre che raggiungerlo lo devi vivere. Sicuramente tagli un traguardo ma una volta raggiunto devi anche saperlo “esercitare”, come nel caso della mia carica da soprintendente ed è lì che ti accorgi che come arrivano i piaceri arrivano anche i dispiaceri o delusioni. Ogni cosa bella porta sempre con sé delle difficoltà o possibili lati negativi che uno deve essere sempre pronto ad affrontare».

 

Del suo lavoro qual è l’aspetto che le piace di più?

«L’incontro, senza dubbio. La possibilità di incontrare persone con cui condivido tante cose e quindi la possibilità di conoscere “l’altro”. Il tipo di lavoro che faccio mi aiuta tanto in questo ma per uno studioso, a prescindere, la cosa più bella è sempre la conoscenza. In quasi in tutte le lingue, quando ti viene presentata un’altra persona si dice sempre “piacere”. Di conseguenza la parola piacere si lega subito a quella della conoscenza. Il senso è che ora ti conosco e questa forse è la più grande fonte di piacere. Per fortuna, questo ancora mi capita e mi dà grandi soddisfazioni. Ovviamente gli incontri non devono essere necessariamente fisici. Anche leggendo un libro si ha il piacere di incontrare una persona e il suo pensiero».

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