IL MIO SOGNO NEL CASSETTO:”Silvia Colesanti”

 “L’OPERA UMANA PIU’ BELLA? ESSERE UTILI AL PROSSIMO”

 

Intervista a Silvia Colesanti

 

Di Alessandra Giancola

 

La tua scheda.

Mi chiamo Silvia, ho 36 anni e vivo a Roma. Sono laureata in Lingue moderne per la Comunicazione Internazionale ed ho conseguito anche un master in Scienze della Formazione. Insegno sia in una scuola elementare che alla British School. Da sempre, quindi, l’educazione e l’istruzione dei bambini è il mio habitat naturale. Parallelamente ai miei impegni professionali, l’attenzione verso il sociale ricopre un ruolo essenziale nella mia vita. Un’attenzione, un impegno che mi rende una donna realizzata e completa.

Raccontaci il tuo percorso di volontariato

Da bambina seguivo mia madre nella casa famiglia “Villa S. Francesco”, un centro di accoglienza per bambini senza famiglia o con situazioni genitoriali non adeguate al loro sostenimento. Mamma donava abiti, giocattoli e altri beni alle suore, intrattenendosi con loro un po’ di tempo, mentre io giocavo con i piccoli ospiti del centro. Questo confronto mi ha resa pienamente consapevole e grata della mia condizione sociale, spingendomi a voler aiutare concretamente altre persone. Sono stata una guida scout, ho “toccato con mano” la realtà degli insediamenti rom, dei campi profughi esteri e ho vissuto due anni all’Aquila, post terremoto, impegnata con la Caritas nell’assistenza alle famiglie. Dal 2012 però, sono “tornata” al Villa San Francesco per concentrare tutte le mie energie con i bambini della casa famiglia attraverso l’associazione “Wakatuya” di cui sono responsabile e presidente. Wakatuya è un progetto senza scopo di lucro che promuove l’incontro tra bambini della casa famiglia e bambini esterni, per condividere attività varie a scopo educativo. Ho quindi trasferito la mia esperienza personale nel programma di Wakatuya. Ad oggi sono riuscita a coinvolgere 5 case famiglia e tanti educatori. I bambini dei centri possono girare per la città e spingersi anche fuori Roma, anche per conoscere i bambini “altri”, quelli più fortunati. Organizziamo, tra le tante iniziative, campi estivi, attività sportive, laboratori artistici e teatrali. Ogni attività è legata ai valori dell’uguaglianza, del rispetto e della condivisione. Non a caso, l’ambientazione della nostra sede è quella degli indiani d’America e Wakatuya, nella lingua lakota, significa proprio educazione.

C’è un momento particolarmente emozionante vissuto “sul campo”?

Ce ne sono ogni giorno. Constatare quante solide amicizie si creino tra ragazzini esterni ed interni alle case famiglia, ci ripaga di ogni fatica ed è lo stimolo ad impegnarsi sempre più. A livello personale il momento più emozionante e significativo è stata la conoscenza di Patrick, un ospite della casa famiglia, che oggi ho adottato. Tra di noi scoccò da subito un feeling speciale che ci ha spinti, con il passare del tempo, a sceglierci reciprocamente e a riconoscerci come mamma e figlio. 

Hai ancora sogni nel cassetto? E qual è il dono più grande che ricevi dal tuo impegno di volontaria?

Il mio sogno è quello di ampliare il progetto Wakatuya, coinvolgendo più volontari e più case famiglia. Spero di avere sempre il supporto della mia famiglia, già interamente partecipe nell’associazione. Donare la libertà di essere sé stessi ai bambini che vivono nei centri, è il regalo più bello che noi possiamo fargli. Contemporaneamente loro ci ricordano quanto è importante apprezzare anche le piccole cose che la vita ci dona e che spesso diamo per scontato: dei pasti caldi, degli affetti, un tetto. Ho imparato, da tutte le mie esperienze, che le persone possono dimenticare ciò che hai detto o ciò che hai fatto, ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire.

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