ARTE E CULTURA: Giulio Bensasson

Si può fermare il tempo?

Il memento mori, lo studio del tempo che segna la materia, la caducità e la decomposizione. Tutto questo spiega e definisce la ricerca artistica di Giulio Bensasson, classe 1990 nato e cresciuto a Roma dove giovanissimo, dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti, si lancia nel mondo dell’arte pronto ad inseguire il suo sogno di sempre.

 

Giulio, quando hai iniziato a muovere i primi passi nel mondo dell’arte e quando hai capito che sarebbe stata la tua scelta e la tua carriera?

Sembra un discorso retorico… però è una di quelle cose che ho sempre saputo. Ho sempre voluto disegnare e fare arte e da piccolo, come un po’ tutti, mi divertivo ad impiastricciare. Negli anni la mia divenne una scelta sempre più consapevole e così dopo il liceo scientifico mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti.

Ho iniziato affiancando l’artista napoletano Baldo Diodato nel suo studio di Roma, mentre proseguendo con gli studi in Accademia, organizzando mostre collettive e continuando sempre la mia personale sperimentazione artistica sia dal punto di vista tecnico che di riscontro con il pubblico.

Un altro artista al quale mi sono legato poco dopo è Alfredo Pirri, con il quale ancora collaboro.

Parlando della realizzazione di un’opera… Da dove inizi? Cosa ti ispira e cosa ricerchi come fine per quello che riguarda anche il rapporto con il pubblico?

Alcune cose sono calcolabili ma il rapporto con il pubblico non lo è. A qualcuno l’opera arriva in un modo ad altri in un altro. Quello che si può fare è veicolare il messaggio ma non con l’idea di trasmetterlo direttamente. Mi affascina moltissimo tutto ciò che dal punto di vista scientifico si avvicina alla morte e al concetto di fine come la decomposizione, sia da un punto di vista estetico che di senso. Il fatto che le cose si trasformino e che abbiano la loro vita e che il tempo lasci le sue tracce, secondo il percorso naturale che compie sulla materia, mi appassiona tantissimo. Sarebbe quindi insincero da parte mia dire che c’è una risposta univoca, dato che alla fine ti influenza tutto quello che vivi e vedi quotidianamente. È importante osservare ogni ambiente e situazione per trarne spunto, poi è naturale che ci sia un focus su un aspetto più che su un altro ma bisogna essere sempre aperti alla sperimentazione e alla ricerca.

Qual è l’opera a cui sei più affezionato?

Impossibile scegliere, ma un lavoro che mi ha dato grande soddisfazione è stato “Slow motion” realizzato con pere incluse in resina epossidica. È un materiale che conoscevo bene e con il quale avevo già sperimentato tanto negli anni dell’Accademia ma è stata comunque una sfida tecnica incredibile. Dovevo realizzare un blocco di resina di 4 kg e, per ottenere il risultato finale, era necessario fare una colata ogni 7 ore. Questo voleva dire che per un periodo ho vissuto di sveglie continue, anche in piena notte, perché dovevo pulire gli strumenti e ripetere tutto. Alla fine ho realizzato 9 blocchi. Ma la vera soddisfazione non è tanto il risultato quanto la sperimentazione e la ricerca, perché mettendo del materiale organico in un polimero plastico è difficile gestire tutta una serie di incognite e problematiche che bisognava saper affrontare sul momento.

Quando realizzi l’opera è un momento che vivi come ricerca, scoperta, processo catartico?

Sicuramente catartico perché ti deve venire un’idea e devi riuscire, con il materiale giusto, a veicolarla e io non ho un medium principale e preferito, anzi, sperimentando, subentra il momento della ricerca proprio perché devi trovare il materiale giusto per veicolare il messaggio. Quindi è catarsi, ricerca e sperimentazione tutto insieme.

Quali sono gli obiettivi per il futuro? 

Direi che dopo il 2020 non si può parlare di progetti, sicuramente però per gli obiettivi di carriera metto sempre l’asticella in alto anche perché stimo molto chi cerca di andare sempre oltre le proprie possibilità.

Artisticamente come hai vissuto il lockdown?

Non posso lamentarmi considerando che la mia prima personale alla Fondazione Pastificio Cerere, “Losing Control”, composta da due grandi installazioni “site specific” e disposta su due piani, è stata progettata in gran parte nel periodo del lockdown. È stato quindi un periodo durante il quale ero molto focalizzato sul mio lavoro, e poi quando sposo un progetto mi ci concentro al 100% e difficilmente la mia testa si dedica ad altro. Quindi in quel periodo tutte le mie energie erano incanalate lì… l’unico problema era reperire i materiali, sia perché non ci si poteva muovere sia perché gli stessi fornitori ne erano sprovvisti. Sono quindi rimasto molto concentrato sulla fase della progettazione.

Realizzi mai opere su commissione?

Quando è una sfida è sicuramente tutto più divertente, quindi quando si presenta una commissione, dipende da cosa mi viene chiesto. Se mi piace l’idea lo faccio volentieri, altrimenti no! Voglio essere sempre sincero con il mio lavoro e deve comunque appartenermi tutto ciò che realizzo.

Parlando degli ultimi due anni tra mercato e nuove frontiere artistiche, siamo pieni di novità. Metaverso, NFT…hai mai pensato di sperimentare questi nuovi mondi? Ti incuriosiscono?

Non condanno nulla e non sono mai convinto di nulla perché rimanere di una sola idea credo sia la base della stupidità, però devo trovare comunque un senso e un fine a ciò che faccio, e il medium che scelgo deve sempre trasmettere nel giusto modo il messaggio. Lavoro con il digitale, ma principalmente per fasi progettuali del lavoro, ancora non mi trovo a mio agio nello sceglierlo come mezzo principale e poi il metaverso mi fa molta impressione. Da fanatico di fantascienza mi sembra che si stia sempre di più avvicinando alla realtà.

A livello di mercato, invece, dopo il Covid lo trovi cambiato? Rallentato? L’interesse dei clienti è mutato? 

Paradossalmente mi sembra che ci sia più interesse. È anche vero però che la fine del lockdown ha coinciso con il mio esordio e quindi l’ho vissuta positivamente. A Roma in generale noto comunque che la gente è più disposta ad aprirsi alla scoperta artistica e a mettersi in discussione, dato che il Covid, come periodo storico e sociale, ci ha tolto molte certezze.

E uno sguardo al mercato estero? 

Non sono campanilista né esterofilo. Non condivido il mito del “lì funziona meglio”, “fuori dall’Italia è tutto migliore ma ho fatto comunque qualche piccola esperienza a Zurigo e in Romania e mi tengo aperto a qualsiasi occasione si possa presentare. 

Ai nostri giovani lettori che cercano modelli ed ispirazione che consigli vuoi dare per intraprendere questa carriera?

Consiglio sempre di fare altri lavori prima ma non perché l’artista non sia un lavoro, come molti potrebbero pensare, ma solo perché personalmente ho fatto esperienze da traslocatore e muratore che mi hanno formato sia dal punto di vista umano che tecnico. Purtroppo aleggia il falso mito dell’artista bohémienne che si droga, ha la sua visione artistica e che può permettersi di condurre la vita come vuole. Appunto è un mito, quindi mettetevi a lavorare e fate il vostro percorso con coscienza. Fate altri lavori sia per la forma mentis che per l’esperienza pratica perché può solo aiutare la ricerca artistica.

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