CAPITANO MIO CAPITANO: “Prof. Paolo De Sanctis”

Intervista a Paolo De Sanctis

captano mio capitano

 

di Giuseppe Pollicelli

 

In questo quinto numero di “Be Different” intervistiamo il professor Paolo De Sanctis, insegnante di Italiano, Storia e Geografia presso la scuola media “Giampaolo Borghi” di Roma, il quale ci racconterà come riesce a conquistare l’attenzione di un’intera classe.

 

Sveglia mattutina, orari da rispettare, compiti a casa, debiti, esami di maturità. Visto così, lo studio assomiglia a una tortura. Eppure a ognuno di noi succede di imbattersi nel professore o nella professoressa che, comunicando il proprio sapere, riescono a rendere le loro lezioni un’esperienza memorabile. Sono gli insegnanti che tutti sperano di incontrare. Sono coloro che cercano di collegare la scuola alla vita, rendendo lo studio una cosa viva e stimolando gli allievi a coltivare i propri talenti.

Perché la scelta dell’insegnamento?

Quando ero uno studente di liceo, nei primi anni Novanta, pensavo spesso che insegnare mi sarebbe piaciuto. Andavo bene sia in latino che in greco e l’unico modo per seguitare a occuparmi di queste materie era proprio fare il professore. Un’altra cosa che mi ripetevo era che sarebbe stato bello avere a che fare con gli studenti. Ma era una considerazione meno convinta dell’altra: in realtà, nonostante mi fossi autopersuaso che proveniva da me, credo fosse soprattutto un pensiero altrui, formulato da persone adulte e da me incamerato. Così, arrivato all’università, ho sostenuto gli esami che davano l’abilitazione all’insegnamento, anche se forse avrei preferito conseguire un dottorato e fare il professore di latino all’università.

Come mai rinunciò?

 Perché l’unico concorso per il dottorato che vinsi, fra quelli sostenuti, si svolgeva a Bologna e non prevedeva l’assegnazione di una borsa. Siccome non volevo più gravare economicamente sui miei genitori, ho lasciato perdere e sono tornato al progetto iniziale, quello dell’insegnamento nelle scuole superiori.

In questo momento, peraltro, le insegna in una scuola media inferiore.

 Sì, la “Giampaolo Borghi”, che si trova a Prima Porta e fa parte dell’Istituto Comprensivo “Karol Wojtyla”.

Quali sono le differenze maggiori che ha rilevato rispetto all’insegnamento nei licei?

Occorre cambiare essenzialmente due cose: il modo di relazionarsi con gli studenti e i criteri di giudizio. Alcuni dei miei attuali alunni, quelli che hanno undici anni, sono nati nel 2004: con loro, per dire, non si può adoperare come se niente fosse un’espressione quale “ex Jugoslavia”, perché alle loro orecchie suona come alle nostre potevano suonare i nomi della Slesia o della Galizia, qualcosa di antico da cui non ci si sente minimamente coinvolti. Inoltre è bene evitare di soffermarsi in modo troppo approfondito su un singolo argomento (cosa che in un liceo è più fattibile), perché è quasi sicuro che questo significherà poi trascurare cose più importanti.

Come si modificano i criteri di giudizio?

In una scuola superiore hai la consapevolezza di stare valutando ragazzi che sono lì per loro scelta e questo, come insegnante, ti pone in una situazione diversa da quella in cui ci si trova avendo a che fare con uno studente delle medie: nei confronti di quest’ultimo, il discorso della selezione viene di fatto messo da parte e lo sforzo consiste soprattutto nel farlo arrivare al traguardo nel modo migliore possibile.

 

Qual è la molla più importante che, ogni mattina, la spinge a svolgere il suo lavoro?

Devo dire che procedo abbastanza d’inerzia, perché quella dell’insegnante rimane per me, sopra ogni altra cosa, una professione. Una cosa che sicuramente mi motiva è il pensiero che quella certa mattina parlerò ai miei studenti di temi su cui mi sono preparato bene. Mi stimola l’idea di poter dare il meglio di me.

 

Quand’è che questo non capita?

Non capita se, poniamo, devo spiegare un argomento sui non sono eccessivamente ferrato e che ho avuto poco tempo per preparare. Un argomento su cui, parlando con franchezza, la mia competenza non è poi così tanto superiore a quella degli alunni.

E i ragazzi? Non sono di per sé un elemento in grado di motivare?

Sì, ma come ho già detto è fondamentale la coscienza di poter offrire loro una buona prova di me stesso come insegnante. Una cosa che mi piace molto, e che alle medie inferiori purtroppo si può fare poco, è svolgere i programmi proponendo ai ragazzi degli spunti che provengono dalle mie esperienze e dai miei interessi personali. E, quando possibile, cerco di riportare all’attualità ciò che devono a studiare, in modo che comprendano quanto forti e numerosi siano i legami tra passato e presente. Nel secondo libro dell’Iliade ci sono oltre 400 versi che altro non sono se non un catalogo delle navi con cui i Greci erano giunti a Troia. Niente più che una lista, apparentemente noiosissima. Ma lì nasce la poesia elencativa, e oggi la modalità dell’elencazione la ritroviamo nei testi delle canzoni di artisti come Ligabue o Jovanotti. Pensi a “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang”.

Ritiene che l’autorità degli insegnanti sia in crisi?

Distinguerei. Io credo che la cattedra, di per sé, conferisca un’autorità, o almeno una certa autorevolezza. Sta al professore farla durare, e anzi consolidarla, riempiendola di contenuti. Poi non c’è dubbio che in situazioni particolarmente disagiate, nelle quali io finora non ho mai dovuto operare, la questione possa risultare più complicata. Ad ogni modo io credo che, specialmente all’inizio, sia giusto mantenere con gli alunni una giusta distanza. È per questa ragione che vado sempre a scuola in giacca e cravatta e, tendenzialmente, non parlo mai della mia vita privata con gli studenti. Ma non perché sia contrario a una relazione più profonda con loro, bensì perché non voglio ricorrere a scorciatoie. Insomma, non mi piace compiacere i ragazzi allo scopo di risultare simpatico: voglio che il rapporto si costruisca e sbocci nel tempo, in maniera naturale.

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